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1 Dicembre 2019

NEVE & ALTRO

Di Umberto Valentinis

Chi macera le sue radici residue nella gleba del “mondo di prima”, è visitato talvolta da presagi. Il frastuono che si leva dalle cavità risonanti del presente, rende a volte quasi impercettibile il loro frusciante bisbiglio. Ma così sommessamente insinuante è il loro richiamo, da così remote, ma ancora familiari, lontananze sembra sfiorare il loro alito le più interne e più antiche cavità dell’orecchio e dell’occhio, che anche la protervia del quotidiano finisce per cedere, e ammutolisce.
Così può insinuarsi, in un giorno qualsiasi, il presagio della neve, il suo “avîs”. Attraversare l’ultimo sonno, quello propizio alle premonizioni. Trascolorare, senza estinguersi, nei primi momenti della veglia. Può giungere dopo giorni opachi, oppressi, sotto cieli di piombo, sconvolti da brevi furie equinoziali. Ma ora l’aria del primo mattino è di nuovo luminosa e serena, di là dalle imposte aperte, e odora di neve. Lontana, su monti lontani, ancora invisibile, oltre la barriera degli alberi, delle case, dei tetti: che il solo desiderio, ancora incerto, ansioso di meraviglia, osa figurarsi.
Di prima mattina, una domenica, sono uscito di casa, in cerca di lei. Ho imboccato la pista ciclabile che si inoltra verso occidente, costeggiando l’asfaltata, deserte entrambi. Bisogna camminare abbastanza a lungo, perché l’orizzonte si liberi un poco: perché si ricomponga almeno nella memoria un’immagine di campagna aperta, tra un campanile e un altro campanile. Ma nell’aria cava si riverberava il suono di campane lontane e gli spazi si aprivano, all’ascolto. E si dilatava il tempo. Oltre la fascia dei prati incolti, scintillanti di guazza, nel groviglio della sterpaglia e dei roveti: sempre più esigua, davanti all’avanzata dei fabbricati. Si accatastano a chiudere l’orizzonte con i gialli acidi, i verdacci fangosi dei loro intonaci. Nell’erba fiorivano gli ultimi fiori della stagione: le ultime vedovine violette, le ultime centauree sfrangiate, accanto alle corolle aeree della carota selvatica, ai capolini celeste pallido dell’erigero. E l’eliantemo fiammeggiava, alto sulle foglie ruvide, crepitanti. Erbacce, dicono i saputi, da estirpare.
Tra una quinta e l’altra, come di straforo, incominciava a baluginare qualcosa di bianco. Non sui rilievi della pedemontana; neanche sulla prima cerchia dei monti: una cupa massa compatta, come annegata in una specie di stremato silenzio. Le recenti piogge hanno spento l’oscura combustione interna dell’estate implacabile, risvegliando umori fuori tempo, così che l’autunno procede a stento con le sue dorate rapine, e le sue alluvioni di porpora sembrano dissanguarsi contro la barriera del fogliame tenacemente, quasi velenosamente, verdeggiante.
Ma infine, al di là, dietro la prima cerchia annegata nell’ombra, la neve appare: la prima neve. Ancora più segreta, se l’occhio, superato il crinale ne accompagnasse il tacito franare lungo i pendii più scoscesi a settentrione. Candida, unita, distesa immacolata; quasi senza ombre, nella prima luce: come emanata, sulle cime del Canin. Sulla bastionata dei Musi, solo un velo, come depositato da venti fuggevoli, impigliato alle asperità dei calcari sommitali. Poi non si vedeva altro. Ma si poteva immaginare più a levante il Lavadôr del Monte Nero, che scivola abbagliante dentro l’ombra: sentire il sibilo del vento contro il dente affilato della cima. Ma i miei monti, il Cuarnan, il Cjampon, non li ha nemmeno sfiorati, la prima neve. E da anni li lascia nudi, anche d’inverno. E non so nemmeno se esista più la finestra della casa ad Artegna, dove un mattino, in braccio alla nonna, gli occhi del bambino si erano aperti sulla prima meraviglia della neve che cadeva, frusciando.
Dura un attimo lo stato nascente di quell’antico stupore. Poi dilegua, infrattato tra le parole che cercano di tradurlo. Ma ogni epifania è intraducibile. E’ una cesura, che verrà riassorbita nella continuità del vissuto, e in esso neutralizzata. Diventerà ricordo. Ma finché dura, allo stupore si mescola un sottile sgomento: se è di Medusa, lo sguardo che la realtà sembra restituire. Guarda senza vedere, come guardano le cose estranee, che non sanno nulla di te, che sono da sempre: da prima di te che le guardi, e continueranno a essere anche dopo che il tuo sguardo, che già prende congedo, si sarà spento. E la Bellezza forse non è niente altro se non un velo, che cerca invano di difendersi da quell’estraneità. Per questo sono enigmatiche le parole che balbettiamo, dopo, per trattenerla.
La prima neve sui monti ristabilisce i confini del paesaggio e lo sigilla: lo restituisce ai suoi silenzi, alle lente macerazioni che rimuovono dai suoi tratti le scorie della stagione troppo umana. Inaugura anche la stagione del ritorno. Al chiuso della casa. Le dissipazioni dell’Estate aperta, cedono alla fine al richiamo degli spazi conclusi.
Si stanno chiudendo anche i cieli illimitati dell’estate; si offusca il fulgore implacabile della sua luce, a mano che l’arco del sole si abbassa, mentre salgono le costellazioni autunnali, i loro più miti lucori, un poco nebulosi. E il volto della Luna si è rappreso di nuovo in un lago di argento remoto. Da lontano governa le ultime maree equinoziali, mitigandone i furori, e apre i varchi dei venti ai transiti degli uccelli migratori.
Forse accompagna anche i passi di chi ritorna a casa, e si chiude la porta dietro le spalle. La casa natale è il luogo dell’origine. Anche se non sempre della ricomposizione. E la casa, tante volte ritrovata e altrettante perduta, è la cassa di risonanza che amplifica gli echi e insieme li rimescola e li intorbida, e i silenzi che si addensano nelle sue stanze fluiscono tra lacuna e lacuna e attutiscono con la loro sommessa pietà gli urti, gli stridori delle dissonanze.
Era la cucina il cuore della casa. Il suo cuore alchemico, e la preparazione del cibo, il suo opus. Ma solo dopo i primi freddi, all’avvento della stagione infeconda, il luogo riacquistava la sua piena dignità di officina simbolica, e le donne di casa ritrovavano senza cercarle le giuste cadenze dei gesti e la sapienza dell’occhio e della mano e l’infallibile misura. Ridiventavano quello che forse si erano sorprese, o illuse, di poter dimenticare, lungo le scorciatoie della stagione facile, quando bastava un salto nell’orto o nel pollaio, per imbastire un pasto: i pomodori appena colti, i cudumars croccanti; le uova, il formaggio, da affettare; la frutta staccata senza fatica dal ramo, l’uva dal tralcio. Una cucina dell’immediatezza, affidata a facili raccolte, a rapidi e anche distratti consumi; dominata dal crudo; ignara di lentezza e complessità. E la confidenza con gli elementi, ridotta al governo dell’acqua, delle sue fugaci effervescenze, e a quello del fuoco, per altrettanto effimere vampate e ustioni, se le carni lo richiedessero.
Ma all’avvento della stagione silente, l’armamentario alchemico della cucina veniva riconsacrato, e riprendevano vita i rituali negletti. Riprendeva a scorrere la corrente delle segrete corrispondenze tra mondo piccolo e mondo grande. Di fuori, la natura preparava la sua morte e insieme la sua rinascita, allentando e sciogliendo i legami interni delle sue forme; frammentando, sottraendo e assottigliando la sua materia, prosciugando gli umori e rimescolandoli fino alle soglie dell’indifferenziato. Non diversamente, in cucina officianti rientrate in possesso della loro segreta sapienza, mimavano il lavorio della natura. Davanti al focolare, il volto arrossato dal riverbero del fuoco, chine su pentole e caldaie in una nube di vapori odorosi che salivano dalle mirabili misture borbottanti che stavano allestendo. Anche le loro mani di notomiste separavano e ricomponevano e come maestre negli arcani della trasformazione sapevano sciogliere e coagulare. Avevano estratto dalle materie più disparate gli spiriti minerali, vegetali e animali, e li avevano rimescolati sotto il governo dell’acqua e del fuoco. E dal lungo travaglio degli elementi affiorava alla fine sul magma del fondo l’aurea quintessenza del brodo. Tutto quello che giace al fondo dei calderoni, trafitto dai forchettoni, rimescolato dai mestoli, contraffatto, sfibrato, quasi irriconoscibile, è solo scoria, detrito. Potrà bensì raggiungere il palato, essere masticato e deglutito, diventare a sua volta cibo, attraverso altre metamorfosi e sapienza di connubi, ma i suoi sapori saranno solo un’ombra di quelli del liquido mirabile cui hanno ceduto le loro anime.
 Il brodo è molto più di un alimento: è il prodotto finale e il culmine di un percorso iniziatico. E la stagione che muore abbandonando per la raccolta gli ultimi frutti della terra, dell’aria e dell’acqua è alla densa trasparenza di quel liquido mirabile che cede i suoi più segreti umori. E chi lo beve, beve insieme una stagione della sua vita e il sapore del tempo.
C’è un’immagine che si insinua alla fine, evocata dal fondo della memoria. Emerge dalla penombra e le sue figure si raccolgono nel cerchio giallastro della luce che piove dall’alto, come su un povero palcoscenico di paese. C’è una tavola apparecchiata, in cucina. Sul bianco della tovaglia c’è il pane e c’è il vino. E ci sono in cerchio delle tazze bianche, di ceramica spessa. Da ognuna di esse si sarà levato il vapore odoroso del brodo, ma ora sono vuote. E sono scomparsi nell’ombra, senza fare rumore, i commensali.
Io siedo solo e sulla tovaglia c’è una sola tazza ancora colma e fumante, accanto al pane, alla caraffa di vino rosso. Ho versato un po’ di vino nel brodo, e mentre la superficie si incupisce, gli odori asprigni del vino si mescolano agli umori del brodo. A lunghi sorsi il caldo liquido imporporato scende lungo la gola e lo sento insinuarsi e scomparire come un rivolo di acqua carsica negli anfratti del mio corpo, inondandoli.
Se varcassi il limite dell’ombra che circonda e avvolge il circolo in penombra intorno alla tavola vuota, potrei venire sopraffatto da altre ondate di immagini: stanno in ressa, dietro il fondale della memoria, che ondeggia sotto l’urto di venti remoti. Allora potrei sentire approssimarsi di prima mattina il volo frusciante, trafitto di strida, degli stormi trasmigranti, e crepitare le foglie secche dei carpini lungo il cerchio sapientemente potato dei roccoli in attesa “in vuaite”, sui primi rilievi. Vedere sollevarsi lo spavento nelle mani degli uccellatori, e lo spavento spegnere gli occhi dei catturati; e i miseri grumi ammutoliti di piume e di sangue. E c’era in un angolo della cucina il girarrosto, pronto a infilzare sui suoi schidioni gli uccelletti nudi, avvolti nel lardo e negli odori, usciti dalle mani esperte delle massaie. Tintinna ancora, nelle mie orecchie il suo cariglione nel buio, dal chiuso della sua torretta di ferro istoriato.
Potrei inoltrarmi ancora più lontano, nell’ombra più fitta, e ritrovare un cortile nebbioso di novembre, in un paese scomparso, e in fondo al cortile sbarrare gli occhi sulle assi umide di un tavolaccio, per chiuderli sul fiotto di sangue del maiale sgozzato; per aiutare le mani a tappare le orecchie del bambino, sulle strida terribili che avevano preceduto e accompagnato il massacro. Non finivano di ripulirlo del sangue, le secchiate che gli officianti, riposto il coltellaccio, versavano sulle tavole del sacrificio. Ma più tardi, sul focolare, il sangue dello sgozzato ribolliva nel calderone, misto a spezie, a cioccolata per addolcirne il sapore di morte. E l’orrore provato non aveva impedito al bambino di assaggiare l’intruglio caldo e torbido, di deglutirlo a sorsi: di trovarlo forse gradevole. E anche le carni di questa vittima sacrificale sarebbero diventate cibo, e dalle mani sapienti del norcino sarebbero passate a quelle altrettanto sapienti delle donne di casa. E nel chiuso della cucina si sarebbero celebrate altre metamorfosi, altre misteriose transustanziazioni, e altri mirabili connubi avrebbero avvicinato materie disparate e umilissime, talvolta perfino incompatibili .
Cadeva regolarmente la neve, sullo sfondo di quel mondo defunto, di quelle stagioni evocate, a metà tra autunno e inverno. Potrebbe incominciare a cadere silenziosa anche sul nero di queste righe. E sommergere ogni cosa.

 

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