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1 Dicembre 2019

LE LEVATRICI DELLA PAROLA

Di Maria Rimase

Perché avete chiamato noi a parlare del Natale?
Non siamo professioniste della parola, non abbiamo titoli per intervenire. Stiamo zitte da secoli. Balbettiamo racconti. Le nostre sorelle indigene - ci suggerisce la giornalista Lucia Capuzzi - dicono che per realizzare la propria dignità bisogna “far albeggiare la parola”.
Al Sinodo sull’Amazzonia, quello dove nemmeno le Superiore religiose han potuto votare, forse si è cominciato a capirlo.
Ma noi non siamo religiose, non siamo pie donne. Finisce che disturbiamo, finisce che roviniamo la festa e diamo corda a tutti quelli che pensano che l’unica cosa sensata da fare sia abolirlo, il Natale.
… Eppure c’eravamo, quella notte. Anche se non siamo mai state citate, anche se siamo state invisibili durante tutto questo tempo. Siamo sfuggite ad ogni censimento. Di noi non è rimasta memoria, come delle nostre colleghe Sifra e Pua, le levatrici che fecero obiezione di coscienza all’ordine del faraone di ammazzare tutti i neonati al tempo di Mosè. Non avevamo la loro esperienza. Eravamo lì per caso e abbiamo fatto quello che abbiamo potuto per aiutare quella povera ragazza.
Avete idea di quello che vuol dire partorire in una stalla?
Non c’è niente di poetico, ve lo assicuriamo. Vi risparmiamo molti dettagli per non farvi andare di traverso il panettone, ma non possiamo esimerci dal ricordarvi che ancora oggi, ogni giorno muoiono di parto ottocento donne e settemila bambini (dati Unicef). Si preferisce investire in armi anziché in strutture sanitarie...
Ricordiamo la difficoltà di operare al buio, nel mezzo della notte, anche se a un certo punto, non sappiamo come, ci fu una gara per farci avere lucerne, olio, perfino una tenda arrivò, bellissima, portata da una donna piena di sapienza, che ci procurò un po’ d’intimità.
Con noi c’era quell’uomo. Non sapeva come aiutare, ma non la lasciò un attimo, la donna che non era sua.
Lui non era nemmeno il padre del bambino, ma l’unica cosa giusta da fare l’aveva già fatta.
Aveva salvato quella ragazza dalla lapidazione.
Ad un certo punto tutto tacque.
Accadde e ci parve che fosse l’alba della creazione.
Eravamo lì, noi e quella famiglia irregolare che secondo il Diritto canonico non si potrebbe neanche definire tale.
Ci fu quell’attimo di sospensione in cui tutti stettero zitti e di cui perfino gli animali, oltre la tenda, sembravano essere partecipi.
Ci sembrò che la nostra storia fosse divisa in due da quel momento.
Ma non potevamo goderci l’idillio, dovevamo pensare a mille cose da fare ancora, tagliare il cordone, per esempio. Aspettammo prima di farlo. Mettemmo il bimbo sul ventre di sua mamma e aspettammo un poco per non fare violenza a nessuno dei due.
Una di noi era greca di origine. Un po’ di tempo dopo raccontò tutte queste cose ad un tale di nome Giovanni. Fu lui che compose una canzone, un inno per raccontarle e lo mise all’inizio della sua narrazione. E parlò del “logos”, che in greco vuol dire “parola” e che ha la stessa radice del vostro “legame”. E disse di questa iniziale relazione strettissima (nell’utero, “kolpos” del Padre) che è stata raccontata dalla Parola fatta carne che ha illuminato la notte. E mise in guardia dal rischio di scarnificare questa Parola. Come dire che ci dobbiamo sempre ricordare della stalla, delle donne e dei bambini che muoiono durante il parto, uccisi dalla nostra indifferenza e occuparci sempre del corpo di chi soffre. E dobbiamo aver cura di trasmettere questa memoria pericolosa. Alla fine lo prendemmo in braccio, quel bambino. Forse per questo non potevamo non intervenire. Capimmo di dover sempre aiutare Dio a nascere e l'alba ci sorprese mentre custodivamo la Parola.

 

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